venerdì 6 maggio 2011

Tutto è relativo



Cara Cri
la sera è stranamente quieta dopo una giornata di ordinaria confusione. I bambini sono addormentati e come di consueto, passo da uno all’altro per rimboccare le coperte e ammirarli in questo stato, quasi innaturale, di calma e compostezza.
Mi soffermo sempre più a lungo di fronte al letto di Robbie, perché ha l’abitudine di costruire ingegnosissime opere architettoniche per riporre i suoi animali di peluche per la notte.  Tutte le scatole che riesce a raccattare prima di andare a dormire, da quelle che in genere contengono i suoi giochi e che vengono svuotate alla rinfusa sul pavimento, a quelle grandi di cartone conservate appositamente dal trasloco,  fino alle scatolette dei cereali o della pasta, sono disposte meticolosamente tra le lenzuola e incastrate in torri altissime e un po’ precarie.
Sono i giacigli per i suoi compagni notturni.
C’è talmente poco spazio per lui in questo suo slancio di edificazione che lo trovo sempre contorto in posizioni complicate, col corpo schiacciato contro il muro, una gamba sospesa a ponte su un serpente e l’altra a mo’ di copertina su un elefante. A volte, nonostante l’afa, mi chiede anche di pinzare il lenzuolo sulla barra anteriore del letto per rifugiarsi sotto la tenda con il suo circo. Lo ritrovo più tardi tutto sudato sotto una coltre di orsetti pelosi.
Robbie, a dispetto delle fobie di sua madre, nutre una passione sviscerata per il mondo animale. Mentre io mi affanno per annientare il mio nemico insidioso, le minuscole formiche bianche con le tenaglie, lui esce ogni giorno con una scatola di IKEA trasparente, così ingombrante da aver bisogno di due mani per trasportarla. Il playground è collocato ai bordi di un laghetto dove il mondo naturale abbonda di vita ed esemplari, ai suoi occhi, interessantissimi: girini, pesci, tartarughe, rane e insetti di ogni specie. Robbie spera sempre di tornare vittorioso e perlustra il terreno in lungo e in largo con occhio scrupoloso.
In queste esplorazioni è spesso accompagnato da un bambino di madre cinese-singaporiana e padre, credo, americano. E’ un bambino simpatico con un accento marcato singaporiano nella parlata, un inglese frammisto di espressioni cinesi, come l’enfatico ‘laaaaaaaaa’ aggiunto alla fine di ogni frase – una sorta di ‘dai, su’ esortativo – e le parole troncate a singhiozzo che lasciano l’impressione di una lingua acquisita, non naturale, anche se ormai diventata idioma ufficiale.
Quando Robbie va al playground, ripete questi suoni come se li conoscesse da sempre, spinto da un istinto di integrazione sociale senza sforzi o pretese. Mi sono accorta che l’inserimento in un gruppo, almeno per i bambini, avviene a partire dall’udito e non dalla vista, perché le differenze di abiti e pelle passano del tutto inosservate, mentre la pronuncia e le cadenze sono immediatamente percepite come tratto fondamentale di identità.
Questo bambino ha il peggior taglio di capelli che abbia mai visto. Mi chiedo cosa pensi sua madre quando impone al parrucchiere di pettinarlo da deficiente, perché la richiesta non potrebbe essere più specifica. Non te lo dico con animo pettegolo ma con tenerezza materna, povero bambino, perché mi chiedo chi lo conci con quella frangetta cortissima a spiovente sulla fronte e un caschetto da femmina rigonfio come un melone. Anche la madre non è esattamente una bellezza orientale – George, dopo averla incrociata per la prima volta una settimana fa, ha commentato con vera diplomazia inglese ‘the fairy must have beaten her with the ugly wand’. Per di più è lunatica, a volte si infuria senza ragione con i bambini del playground o con la sua povera helper. Quest’ultima, filippina come la maggior parte di tutte loro, è l’unica nel nostro complesso ad avere i capelli estremamente corti.
Mi è stato spiegato che le donne filippine raramente si tagliano i capelli. Non a torto, dato che le loro chiome lunghe e fluenti sono un segno evidente di femminilità, un accorgimento di bellezza naturale e poco dispendioso, spesso l’unico che possono concedersi.
A volte alcuni datori di lavoro, soprattutto di origine cinese, impongono a queste ragazze di privarsi di questo solo vezzo, da un lato con scuse di tipo igienico, dall’altro, senza badare a tante scuse, per affermare la propria autorità.
Imporre regole anche sulla sfera privata mi sembra una forma di sopraffazione veramente meschina, considerando che nella convivenza e in un rapporto di lavoro subordinato di privato hanno già ben poco. 
Quando siamo arrivati a Singapore, per assumere Alice, la nostra helper, abbiamo dovuto frequentare un corso organizzato dal governo di Singapore. La prassi obbligatoria prevedeva tre giorni di frequenza presso la sede delle lezioni o un corso di un’ora su Internet a cui però seguiva un breve esame con risposte a crocette.
Il tema del corso consisteva di nozioni utili quali il sistema legislativo in materia, i diritti e i doveri di datore di lavoro e impiegato, quali ad esempio il biglietto di rientro in patria allo scadere del contratto o i giorni di riposo previsti dalla legge, e di informazioni del tutto balzane, spia di un sottofondo di quotidianità, celato dalle pareti domestiche e da invalicabili barriere culturali.
In particolare, abbiamo appreso che:
1)    le helper mangiano. Pertanto devono essere nutrite con una quantità adeguata di carboidrati per poter svolgere un lavoro che implica consumo di energie e carne almeno due volte la settimana
2)    le helper non vanno buttate giù dalla finestra. Questa regola non era formulata apertamente in questi termini ma presentata con un articolo di giornale riguardante un fatto realmente accaduto in cui un datore di lavoro si sbarazzava così dell’impiegata dopo un acceso diverbio. Implicitamente si invitavano le parti a risolvere i conflitti in maniera più pacata
3)    le helper si stancano. A volte riposano. E’ obbligatorio concedere loro una giornata alla settimana o ogni due settimane a seconda del contratto e non eccedere con le tempistiche dell’orario lavorativo. Esempio: dall’alba fino a notte fonda è da considerarsi oltre misura
4)    le helper non leggono il pensiero. Se si vuole comunicare loro qualcosa, bisogna esplicitarlo a parole e in maniera chiara. A volte hanno bisogno di indicazioni, anche basilari, sullo stile di vita della famiglia ospitante poiché provengono da nazioni povere e possono non conoscere abitudini e mezzi dei paesi più moderni. Pertanto si è tenuti a offrire un letto anche se precedentemente dormivano sul pavimento,  assicurarsi che sappiano come utilizzare i vari elettrodomestici onde evitare catastrofi tra le mura di casa e chiarire  le proprie preferenze educative nell’affidare loro i bambini, anche se un monitoraggio iniziale è caldamente consigliato
5)    le helper hanno sentimenti. Un clima di inflessibilità nuoce alla qualità del lavoro. Si esorta anche a esprimere il proprio apprezzamento di tanto in tanto come forma motivante di gratificazione
Il corso era a dir poco curioso e mi ha lasciato un’impressione strana, uno spiacevole retrogusto amarognolo come dopo un boccone indigesto.
La riuscita di un rapporto nel tempo si misura anche con le frasi e le allusioni, con la lentezza della pazienza, con l’appiattimento a tabula rasa di un sistema di valori che si considera a volte innato e non frutto dell’esperienza.
Anche la convivenza con Alice ha avuto alti e bassi, ma questo te lo racconterò nella prossima lettera perché l’improvviso ululato di un bambino dalla stanza accanto – vuole il bicchier d’acqua che è posato sul suo comodino e la distensione del braccio non è prevista se sostituibile con una mamma in corsa – reclama la mia immediata presenza.

1 commento:

  1. Ciao, leggere i tuoi racconti su un posto in cui sono stato e che mi è rimasto davvero nel cuore è stato emozionante. Ma siete ancora lì? Non scrivi più?
    Spero di poterti leggere di nuovo.
    Gianfranco

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