Provo sentimenti contrastanti per la nostra nuova casa di Singapore. Mi chiedo se sia il momento migliore per parlartene dopo la mia reclusione forzata per due settimane.
L’altro giorno ho letteralmente ‘fatto i capricci’ con George perché non ne potevo più di starmene rintanata tra queste quattro mura. Che per dirla tutta sono molto più di quattro, dato che l’appartamento è enorme, ma nella mia lamentela questo dettaglio non aveva importanza. Era uno di quei giorni. Quei giorni... li avrai anche tu, no? I momenti in cui nemmeno una lauta vincita alla lotteria ti farebbe sentire meno sfortunata, meno perseguitata dalla sorte, meno infima creatura tormentata dal tutto universale. Non è che mi capita spesso grazie al cielo, e col senno di poi riconosco una certa cadenza mensile un po’ sospetta ma, quando accade, riesamino le questioni più svariate sotto un punto di vista distorto, dipinto di grigio scuro.
Sai che col mondo animale ho un rapporto non sempre sereno.
Ricorderai in passato la mia battaglia con l’hotel le cui finestre si affacciavano sul cortile interno della mia prima casa a Torino con George. Gli uccelli riempivano il mio balcone di poco apprezzati souvenir, e nidificavano nelle camere abbandonate dell’hotel, contigue al balcone stesso.
Ogni volta che aprivo la finestra, un frullo di ali era costantemente il preambolo a una pioggia di escrementi. Non si tratta mai di una bella vista, ma la cacca dei volatili che invadeva il parquet del mio salotto con indelebili macchie vischiose aveva un che di ripugnante che mi faceva ribollire di rabbia. Di lì, la mia prima crociata contro i gestori dell’hotel che a lungo fecero orecchie da mercante, poiché non volevano rinnovare le camere in questione e occuparsi di chiudere i buchi nelle finestre.
Partivo alla mattina furiosa come un’Erinni e andavo dritta dritta alla reception dell’hotel, dove la nonna della gestrice, una signora che ormai era piu’ di la’ che di qua, mi osservava silenziosa e impassibile mentre mi dimenavo e gridavo le mie rimostranze. Inutile dirti che avrei potuto tranquillamente passare sul suo corpo senza che lei nemmeno se ne accorgesse, se un giorno non avessi finalmente incontrato la nipote e intuito, come un’illuminazione fulminea, che era lei la donna in carica e non il rudere. Era evidentemente una nonna fantoccio. Veniva appoggiata alla sedia solo per fare presenza mentre la nipote sbrigava altre faccende. Finalmente fui ascoltata e i piccioni rimossi dalla mia esistenza.
La seconda crociata che mi vide protagonista e di cui sono certa hai una vivida memoria fu quella contro il gallo della casa dei miei suoceri.
Io, incinta all’ottavo mese di James, il mio primo figlio. Decido di trascorrere quel momento magico della vita in ritiro quasi spirituale nel bellissimo cottage immerso nel verde della campagna inglese. George mi avrebbe raggiunto una settimana più tardi.
Mi pregustavo quella vacanza da mesi. Già mi vedevo, seduta sulla panca di legno nel patio tra le aiole, con una tazza di the e con un libro ambientato nell’’800 dove qualche poverina dalla sorte avversa si innamorava di un lord a cavallo e veniva riscattata dalla sua vita di sfighe per coronare il suo sogno d’amore e vivere felicemente in un palazzo con giardini, fiorellini e fontanelle. Mia suocera ha un armadio pieno di queste delizie, tre ripiani ricolmi di Georgette Heyer, l’epitome del romanzo rosa nel periodo della Reggenza inglese, con dandy affascinanti e fanciulle dai vestiti di mussola a vita alta.
Tutto sarebbe andato come da piani, se non fosse che tra le novità dell’estate c’era un gruppetto di galline acquistato con lo scopo di avere uova fresche alla mattina per una perfetta English breakfast e, soprattutto, il loro gallo protettore. Pensa al gallo esattamente come a un pappone che doveva proteggere le sue ragazze. Peccato che fosse convinto che a minarne la virtu’ fosse la sottoscritta, ti ripeto, incinta all’ottavo mese e con l’agilità di un pachiderma. Ogni volta che aprivo la porta di casa, il gallo mi si scagliava contro agitando freneticamente le ali ed emettendo suoni che mai avrei pensato un gallo potesse produrre.
L’avvilimento per non riuscire a raggiunger la mia ambita panca era tale, che un giorno presi la scopa e decisi di brandirla a mo’ di spada per prevenire un’eventuale aggressione. Tempo cinque minuti dall’aver conquistato la panca, che evidentemente la bestia feroce considerava territorio delle sue pollastrelle, e il gallo incomincia la sua solita danza minatoria. Ma questa volta ero armata. Impugno la scopa e inizio a batterla furiosamente per terra, urlando ‘Scio’’, come Attila prima della battaglia. Dopo un minuto di indecisione per valutare la propria posizione, il gallo salta sulla scopa e si avvicina in men che non si dica al manico, sempre sbattendo le sue temibili ali pennute col suo schiamazzo assordante. E’ troppo, soprattutto per una donna nelle mie condizioni. Riconosco la sconfitta, lascio cadere scopa e gallo a terra e corro a chiudermi in casa a piangere tutte le mie lacrime al telefono con George, che pero’ fatica a capire cosa sto farneticando e, in seguito, non reagisce con la compassione dovuta.
Alla sera, racconto l’episodio anche ai miei suoceri, ma anche loro mi ascoltano con indulgenza e senza grande convinzione (il subdolo gallo agiva solo senza testimoni). La loro soluzione: una sessione di yoga per calmarmi i nervi. Conoscono un’insegnante esperta in yoga per la gravidanza che può venire addirittura a casa e offrirmi una lezione in giardino. Il tutto viene organizzato rapidamente e mi ritrovo alcuni giorni dopo con l’insegnante in questione, una donna di origini cinesi con la fronte liscia e un’età indecifrabile, un sorriso tatuato di perenne pace interiore, longilinea e asciutta, senza nemmeno un’ipotesi di cellulite. La personificazione dell’equilibrio Zen. Ci sediamo sul prato tra i boccioli e le piante fiorite, all’ombra di un grande albero. L’insegnante mi invita a chiudere gli occhi e rilassarmi, dicendomi di immaginarmi in un luogo di grande serenità e bellezza. Iniziamo a pronunciare l’Om all’unisono cullate dalla brezza, immerse nella nostra fantasia paradisiaca. All’improvviso il gallo le piomba in testa dal nulla, evidentemente appostato dall’alto di un ramo, sbatacchiando ali e zampe col suo grido selvaggio.
Cri, ora te lo posso confessare. In quell’istante fui felice. Non ero più una pazza visionaria, qualcuno condivideva con me quell’orrore. Nei paraggi quel giorno c’era il fratello di George, un veterinario coraggioso e disincantato. A tanto baccano, accorse e afferrò il mostro per il collo, mentre l’insegnante sotto shock continuava a urlare, e lo lanciò come una palla di cannone dall’altra parte del prato. Da quel momento il gallo venne rinchiuso in un recinto e io vinsi la mia seconda crociata.
Non ho mai più visto quell’insegnante. Di tanto in tanto la immagino, povera donna, di fronte a uno specchio a tagliarsi ciocche di capelli con aria mesta e assente, o a vagare come un’anima in pena lungo la Senna.
Un aggiornamento di cui non sei al corrente: tempo fa mi è stato riferito che una volpe è entrata nel recinto e si è mangiata il gallo. Nessuno ha mai saputo se l’avessi assoldata io.
Tutto questo per dirti che temo di essere arrivata alla mia terza crociata.
La sento in via di ebollizione, come una pentola di fagioli borlotti.
Lo sai che questo non porterà a nulla di buono, ma quando una fissazione diventa tale ci sono varie fasi:
1) la realizzazione del tormento
2) l’osservazione del ripetersi del fenomeno
3) il tentativo, che può essere anche ripetuto, di cessare il fenomeno in itinere
4) la presa di coscienza del fallimento del tentativo
5) l’ossessione fino all’eliminazione del problema
Al momento sono allo step numero tre.
Il mio cruccio singaporiano sono le formiche. Lo so che mi capisci e che non stai assumendo quell’aria di sufficienza che altri potrebbero prendere con, a mio giudizio, eccessiva superficialità.
Le formiche di Singapore sono un flagello come le cavallette d’Egitto. Non so se ne sia afflitta solo la mia casa o tutta l’isola.
Immaginati questo quadretto. Io e George siamo in terrazza, a goderci il panorama: giganteschi alberi dalla chioma a ombrello creano un morbido manto rigoglioso, fiori esotici variopinti, uccelli dai colori stravaganti si tuffano tra il fogliame e riappaiono come guizzi di luce a interrompere il verde, il mare in lontananza. Mi cade una goccia di caffè sul tavolo. All’improvviso, sotto i miei occhi inorriditi, una colonna infinita di minuscole formichine bianche con piccole tenaglie (le devi guardare proprio da vicino ma si, hanno le tenaglie) sbuca fuori dal nulla e si precipita vorace su quella macchietta zuccherata.
Lo so, lo so, non sembra nulla. La gravità della situazione può non balzare agli occhi perché normalmente in Italia non ci si accorge della quantità smodata di cibi dolci le cui tracce inavvertitamente vengono tralasciate in giro per la casa. Ne’ si conserva tutto assolutamente sotto vuoto per la minaccia sempre costante di ritrovarsi un esercito di formiche sopra il toast quando ci si spalma la marmellata.
Le ho provate tutte. Trappole ammazza-nido: contengono un liquido velenoso che attrae gli insetti e viene diffuso da essi una volta tornati nella tana. Insetticidi. Stucco per tappare i minuscoli fori da cui provengono. Persino l’omino della disinfestazione che passa regolarmente nello stabile per le ragioni più svariate – ad esempio, lo sapevi che a Singapore le termiti possono invadere gli appartamenti? Sarò io la prossima?
A nulla sono valsi i miei sforzi e ora inizio a chiedermi quale sarà la mia prossima mossa. Soccomberanno le formiche? Soccomberò io? Mi abituerò a convivere con una moltitudine di minuscoli animaletti fino a considerarli parte della casa, i miei piccoli cuccioli? Forse. Ma la mia ultima crociata non è ancora a termine.
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