Due settimane fa, proprio prima di ammalarmi, avevo deciso che mi sarei gettata nella mischia e avrei iniziato ad avere una vita sociale. Sembrerà strano, ma nonostante sia qui da ormai quattro mesi le mie chance di conoscere persone sono state piuttosto limitate. Un rapido paragone con la nostra esperienza precedente: quando siamo arrivati a Hong Kong, nell'agosto del 2008, mi è parso di essere stata catapultata all’improvviso in una vita da villaggio vacanza, sotto tutti i punti di vista. La nostra prima abitazione per gentile concessione della società per cui lavorava George, un appartamento ammobiliato in un complesso di quattordici torri-grattacielo, pareva l’interpretazione cinese del club Med all’ennesima potenza. Piscine con giochi d’acqua, numerosi campi da tennis, bellissima palestra multipiano, fontane a gradinate, sculture di ottimo e pessimo gusto. In Cina, quando si vuole ostentare il lusso, non ci si limita neanche un po’. Di solito è sufficiente inserire qualche elemento architettonico classico palesemente finto, una colonna dorica plastificata, stucchi dorati in quantità, una statua di una divinità seminuda, un enorme vaso in stile romano con elaborate composizioni floreali. La nuova casa aveva tutto ciò e molto più, ma nonostante l’opulenza sbandierata era bella e senz’altro divertente. Ai bambini era sembrato di raggiungere la terra promessa. Trascorrevano le giornate in piscina e si dilettavano a tentare di mangiare con i bastoncini i loro primi dumplings, i ravioli al vapore così frequenti nei ristoranti cinesi in Italia ma così privi di sapore se paragonati a quelli autentici, una vera leccornia asiatica.
Robbie ne sarebbe diventato goloso nei mesi, fino a richiedere quello come menu ‘obbligatorio’ al suo ritorno da scuola.
La nostra era una sistemazione provvisoria per i primi due mesi in attesa di trovare una casa più permanente e acquistarne il mobilio. Avevamo lasciato la nostra casa in Italia intatta con l’idea che saremmo tornati per le vacanze e, comunque, senza una data precisa in mente per il nostro ritorno, che pensavamo più prossimo rispetto a quello che poi è accaduto e abbiamo deciso in seguito. Comprare tutto nuovo e possibilmente da Ikea con un budget limitato ci sembrava la scelta più semplice. Ho passato le prime settimane a vedere incessantemente appartamenti nella zona che avevamo scelto, mezz’ora da Central e in un posto tranquillo di sapore quasi mediterraneo vicino al mare, lontano anche se non in linea d’aria dal cuore pulsante di Hong Kong con i grattacieli spettacolari e il rumore, l’inquinamento e il caos tipico di queste grandi città. Essendo un’appassionata di mercati e mercatini, ero rimasta affascinata da quello piuttosto turistico ma molto caratteristico di Stanley, originariamente un villaggio di pescatori trasformato in un paese con tutti i comfort per expat – ristoranti sul lungo mare, negozietti, belle spiagge balneabili…- ma allo stesso tempo in grado di mantenere un certo carattere cinese, soprattutto quando ci si allontanava dalla via principale del mercato e si esploravano le viuzze secondarie con le botteghe dei pittori e le mense e i bar per locali, dove spesso li vedevi seduti per ore a giocare a Mahjong.
Finalmente, dopo lunghe ricerche, la nostra scelta è ricaduta su un appartamento in un grattacielo a cinque minuti da Stanley, un edificio dalle linee curve e sinuose realizzate attraverso un susseguirsi di finestre di vetro. La superficie vista dal basso ricordava le onde del mare, tanto più richiamate dal fatto che l’enorme palazzo ara abbarbicato in cima a una baia a picco sugli scogli. La vista dall’interno era mozzafiato. Era mare, mare a perdita d’occhio. Dal nostro dodicesimo piano, mi ci è voluto un po’ per abituarmi a vedere i bambini giocare vicini alle finestre, e superare il senso di vertigine quando li guardavo appoggiarsi al vetro.
Dal punto di vista sociale, era la stessa abitazione a favorire gli incontri. Era un complesso principalmente di expat, in particolare giovani famiglie come la nostra con due o tre figli. I bambini si incontravano al playground, un cortile attrezzato di giostrine dove i genitori, ma soprattutto le helper, trascorrevano i pomeriggi. In ascensore c’era sempre occasione di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno, una mamma che scendeva per andare a fare la spesa, una che saliva con le borse in mano e qualche bambino a fianco. Era incredibile vedere i pancioni materni moltiplicarsi a vista d’occhio. O l’aria di Hong Kong stimolava nuove gravidanze o il contesto favoriva particolarmente la decisione delle famiglie di espandersi: una maggiore tranquillità economica, più tempo a disposizione, maggiore aiuto domestico…Qualunque fosse la ragione, a tutti prima o poi scappava un figlio a Hong Kong. Io non ho voluto fare eccezione e ho confermato assolutamente la regola.
Gli incontri e le amicizie che ho intrecciato sono stati più o meno superficiali e più o meno profondi. Ho subito dovuto fare i conti con la natura stessa delle situazioni che portavano questi nuovi nuclei familiari in Asia. Trasferitisi come noi per motivi di lavoro, proprio per lavoro spesso dovevano tornare o spostarsi in una nuova grande città. In genere, i movimenti più frequenti che sentivo erano tra Hong Kong, Shanghai, Singapore e Tokio. Chi arrivava da Singapore, commentava spesso riguardo alla diversità di stile di vita, molto più dinamico e attivo a Hong Kong, soprattutto dal punto di vista lavorativo, e più rilassato e adatto alla vita famigliare a Singapore. Ora che le conosco un po’ entrambe, capisco meglio a cosa si riferissero.
A Hong Kong ho avuto una grande amica americana. L’ho incontrata quasi subito dopo il nostro arrivo. Anche lei era fresca fresca da trasloco, con due bambini maschi coetanei dei miei. Al contrario di me, la sua era stata una decisione un po’ forzata, il marito era a capo della divisione responsabile dell’Asia di una grossa azienda di abbigliamento e avevano dovuto lasciare il Maine, il loro paese di origine dove avevano una grande casa in mezzo a una natura incontaminata, ettari e ettari di bosco senza altre case in vista, per vivere a Hong Kong, una città la cui superficie è minima a causa delle montagne vicino alla costa e in cui gli edifici altissimi si avvinghiano gli uni agli altri, esili come canne di bambù o solidi grattacieli avveniristici, su una sottile striscia di terreno per contenere la marea umana in continua espansione.
Ti ricordi che ti raccontavo che in ogni paese mi cerco una Cristina a tua immagine e somiglianza! Oltre ad avere il tuo nome in forma anglosassone, Christine, aveva anche una certa somiglianza fisica e di carattere con te e abbiamo subito legato. Purtroppo lei odiava la sua nuova sistemazione e non ha mai superato lo shock culturale e la diversità. Dopo un anno, in cui in sostanza ci siamo viste ogni giorno e in cui i rispettivi mariti e figli hanno anche legato molto, ha deciso di chiudere i battenti e tornare in Maine. Ne aveva abbastanza di cemento.
Questo tipo di situazione si è ripetuta altre volte, anche se non con la stessa intensità di rapporto che avevo avuto con lei. Altre amiche sono arrivate e con la stessa rapidità ripartite, come brevi apparizioni da un altro pianeta. Durante i primi mesi della mia gravidanza, in pieno sconvolgimento e altalena ormonale, mi ero quasi ripromessa di isolarmi forzatamente. Non avevo più voglia di mettermi in gioco, riaprirmi, lasciarmi conoscere. Avevo tante conoscenze superficiali, l’amica del caffè, le mamme di scuola, quella con cui chiacchierare alla fermata dell’autobus, ma nessuna con cui sentivo una vicinanza speciale. Allo stesso tempo, è stata la gravidanza a unirmi progressivamente ad altre persone – indovina un po’, gravide come me – e a farmele sentire più vicine.
Il tempo di conoscerle e poi la decisione, quasi improvvisa e dovuta alle mutate circostanze lavorative di George, di lasciare il paese per una nuova avventura.
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