martedì 12 aprile 2011

La risalita


Cara Cri
Ti scrivo finalmente rimessa dalla malattia. Che, tra l’altro, si è scoperta essere morbillo e non scarlattina. Un’inezia, se non fosse che avevo tutti i sintomi del morbillo e ho visto tre diversi dottori, ognuno con una diagnosi diversa. Ognuno con un pacchetto di medicine assortito.
Io che mi nutro di nozioni su Google come se fosse il Vangelo, e come Sherlock Holmes avevo diligentemente svolto la mia indagine personale, avevo già valutato tutti i morbi, dal più verosimile al più raro, e mi ero accorta della possibile erronea valutazione già da qualche giorno. Non me la si fa di certo e Wikipedia mi ha dato ragione.
Un’ultima nota, poi non ti annoio più con l’argomento. Lo sai che negli Stati Uniti, grazie ormai alle vaccinazioni obbligatorie, i contagiati da morbillo sono circa 150 l’anno? Non ho voluto appositamente sapere quanti ce ne fossero sulle tre zolle che compongono Singapore, perché temevo di incappare nell’unica risposta ovvia: io e quel disgraziato che mi ha infettato.
Menomale che siamo coperti dall’assicurazione medica, perché nonostante gli errori, ci abbiamo rimesso uno stipendio con tutte queste visite.
Il morbillo non ha risparmiato nemmeno Charlotte. Anche lei ha cominciato a tossire, ad avere i sudori per la febbre alta e si è ricoperta di macchioline rosse dalla testa ai piedi. Fortunatamente in questi giorni la temperatura è scesa e lo sfogo sta sbiadendo. E infine, rullo di tamburi, James è caduto la settimana scorsa dalle barre per arrampicarsi in giardino e si è rotto un braccio.
Ti assicuro che ho cominciato a pensare che qualcuno punzecchiasse con una bambolina voodoo la mia famiglia. Se fossi superstiziosa, ricamerei tante storie e frugherei nel mio passato per trovare il colpevole che mi augura la mala sorte. Eppure anche nella mia torre di ferrea razionalità, ogni tanto mi soffermo a chiedermi:‘Ma come caspita è possibile?’ (anche se tra me e me lo esprimo con una variante meno francese).
Ora questo percorso accidentato sembra finalmente esaurirsi ed è iniziato il periodo di convalescenza e risalita.
Nel frattempo è arrivato mio padre dall’Italia a rincuorarci.
La sua valigia era carica di formaggi e salami italiani che ogni sera assaporiamo felici, centellinandoli il più possibile per farli durare più a lungo.
Non hai idea cosa significhi il profumo inebriante di una toma nostrana dopo un anno di lontananza dalla terra natia. O il colore evocativo di una fetta di salame. C’è un che di poetico, quasi musicale, nel sapore dei cibi: la suggestione di ritrovarsi in un posto conosciuto, la ricreazione di un’atmosfera.
Mio padre, però, è qui per sole due settimane, perciò l’abbiamo portato subito a provare le specialità locali.
Ieri sera siamo usciti nell’East Coast Park e ci siamo fermati a mangiare all’Hawkers Market. Questo tipo di ‘mercatini del cibo’ si trovano in tutta l’isola, particolarmente nei centri residenziali. Quello del parco è più gradevole per la vista sulla spiaggia da un lato, e su un lago artificiale dall’altro, dove si può praticare sci nautico con uno sky-lift anomalo che traina gli atleti lungo il perimetro del lago e su rampe da salto. 
In mezzo a innumerevoli bancarelle, ognuna specializzata nella preparazione di un piatto asiatico, per lo più malese, singaporiano, cinese e indonesiano, ci si può sedere su uno dei tanti tavolini di pietra bianchi e, una volta preso nota del numero del tavolo, procedere con le ordinazioni. Il numero è fornito al venditore dopo aver scelto da menu plastificati con grandi fotografie invitanti e in breve, e con una spesa decisamente modica, ci si ritrova la tavola imbandita con manicaretti esotici. Il sistema di controllo igienico è tale a Singapore per cui le bancarelle che non passano le frequenti ispezioni vengono immediatamente chiuse. In più c’è un sistema di classifica (A,B o C) che viene evidenziato all’esterno con un cartello e che consente di capire il grado di qualità dei pasti.
Mio padre, come d’altronde noi appena arrivati, sembrava un bambino nel paese di Bengodi, e abbiamo iniziato a ordinare forsennatamente da vari banchetti mentre George ci aspettava comodamente al tavolo con un cestino del ghiaccio e due o tre bottiglie di birra gelate.
Negli ultimi tre giorni, forse anche per il desiderio di evasione dopo la malattia, ci siamo dedicati attivamente a una vita di sollazzo e intrattenimento.
I bambini erano in vacanza per una settimana. Venerdì li abbiamo portati allo zoo safari notturno, l’unico in Asia. Nonostante sia una struttura artificiale, la giungla ricoperta dalle tenebre ha un suo fascino. L’abbiamo percorsa con un trenino con le ruote, con il motore silenziato per non interrompere i suoni naturali dell’ambiente. Gli animali definiti ‘non pericolosi’ erano a portata di mano, anche se una signorina solerte controllava con occhio vigile che non ci venisse la malaugurata idea di accarezzarli, perché la definizione avrebbe potuto essere alterata da un dito mozzato. Gli altri, invece, erano visibili a poca distanza e apparentemente liberi, nella penombra lunare, aiutata da qualche luce artificiale ben dissimulata. Alla vista della tigre della Malesia, mio padre ha quasi avuto un momento di commozione. Ha rivolto un pensiero nostalgico a Salgari e alle sue letture d’infanzia, ricordando i libri ottenuti in regalo per la promozione scolastica e divorati nei lunghi pomeriggi estivi. Chi l’avrebbe mai detto, rimuginava tra sé e sé, che un giorno sua figlia avrebbe vissuto in quelle terre lontane, che lui, come d’altronde Salgari stesso, aveva solo immaginato. Chi l’avrebbe mai detto che avremmo un giorno osservato la tigre della Malesia accucciata mansueta su una roccia tra le mangrovie.
James e Robbie erano estasiati, direi a pari merito per la vista delle belve e per la dimensione del gelato a serata conclusa.
Non paghi di tanto divertimento, il giorno dopo mio padre, i ragazzi ed io abbiamo visitato gli Universal Studios, una specie di Disneyland con giostre, parchi a tema e spettacoli. L’isola di Sentosa, collegata a Singapore da un ponte in tipico stile Disney con vasi fioriti e castello fiabesco all’ingresso, offre questa e molte altre attrazioni turistiche. Ad un certo punto, un qualche  imprenditore operoso deve aver realizzato che la città di Singapore, una distesa pianeggiante, senza montagne o spiagge dal mare cristallino, per quanto affascinante dal punto di vista naturalistico e architettonico, non era sufficiente ad attrarre il turismo di massa dal resto dell’Asia. Sentosa è stata attrezzata in pochi anni di resort, hotel lussuosi in tipico gusto asiatico (la solita colonna dorica e Venere di Milo plastificata), spiagge artificiali con bar e ristoranti, parchi di divertimento di ogni genere e l’immancabile casinò per il gioco d’azzardo in cui, soprattutto i cinesi, riescono a scialacquare patrimoni considerevoli. Quest’ultima considerazione merita qualche ulteriore dettaglio.
Che i cinesi fossero afflitti dal vizietto del gioco non mi era nuovo. Dalla ‘main land’, la Cina in tutta la sua estensione senza considerare le province semi-indipendenti, avevo assistito a interi bus turistici accorrere a frotte a Macau, ad un’ora di traghetto da Hong Kong, per lunghi weekend alle case da gioco locali, in genere hotel dalle dimensioni colossali, con interi piani dedicati alle roulette, alle scommesse e alle carte. In Cina questo tipo di attività è illegale e il governo cerca di arginare il più possibile il fenomeno della pratica nascosta. Non so quanto sia efficace e rigoroso questo tipo di controllo se poi è il governo stesso ad autorizzare e finanziare la costruzione di questi mostri architettonici e a incoraggiare il turismo del gioco nelle sue province. Nonostante sia Macau che Hong Kong siano ormai tornate a tutti gli effetti sotto l’amministrazione cinese come parte integrante dello stato, hanno potuto mantenere una certa indipendenza fiscale e molte libertà che nel resto della Cina sarebbero impensabili.
Nel gennaio dell’anno scorso, avevamo trascorso un fine settimana a Macau per assistere a uno spettacolo del Cirque de Soleil.  In quell’occasione, avevamo soggiornato al Venetian Hotel, una riproduzione di Venezia in miniatura, con tanto di canali, ponticelli, gondole e cantanti lirici o attori reclutati come gondolieri. Lungo le stradine illuminate con i bagliori del crepuscolo giorno e notte, grazie a una volta di cielo tinteggiata di nuvole rosa e turchesi, si susseguivano negozi per lo shopping di moda e gioielli prevalentemente Made in Italy. Le signore cinesi entravano e uscivano come formichine indaffarate da queste botteghe lussuose, cariche di borse delle più grandi firme. Finalmente erano in possesso di un manufatto autentico, non la solita copia con i ganci cuciti storti o la marca stampata al contrario. In Cina, l’autenticità è inseguita come una chimera. La copia è la costante. Anche nei casi di somiglianza più prossima, di quasi totale sovrapposizione, Macau e Hong Kong potevano fornire la variante non contraffatta e per questo, inestimabile.
Il piano inferiore invece era una piazza vastissima dedicata al gioco, circondata da colonne e stucchi dorati e sovrastata da una cupola con affreschi degni della cappella Sistina ma apparentemente dipinti con l’evidenziatore. La sala offriva uno spettacolo spassoso e inquietante al tempo stesso: vecchine invasate inchiodate alle roulette come a un dispositivo per la sopravvivenza, uomini disposti a giocarsi i risparmi di una vita o a gettare al vento somme considerevoli come noccioline, tavoli pullulanti di famiglie, dal bisavolo al nipote poco più che adolescente – ad eccezione dei bambini che non erano ammessi. Una fiumana di gente di ogni estrazione sociale, età e etnia linguistica, ma rigorosamente dalla Cina, la terra madre, padrona e chioccia con una certa dose di ipocrisia.
Questo quadro ti da’ l’idea dell’estensione del fenomeno, che in piccolo si riproduceva con slot-machine disposte ovunque, persino in versione baby, con mini casinò per bambini camuffati da centri per l’intrattenimento. Anche Singapore, che ha una maggioranza cinese nella sua popolazione, sembra non essere immune da questo aspetto.
La mia prole innocente è stata subito deviata alla parte di Sentosa priva di macchinette tentatrici. James, dopo aver chiesto maggiori ragguagli su cosa fosse esattamente un casinò e dopo una mia concitata spiegazione sui rischi del gioco d’azzardo, mi ha guardato con occhi languidi e, a conferma della sua affinità culturale con la terra di Mao, mi ha chiesto:‘Per il mio compleanno, mi ci porti mamma?’.  

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